“Da una sola parte, dalla parte dei lavoratori” – Giacomo Brodolini

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“Da una sola parte, dalla parte dei lavoratori” – Giacomo Brodolini

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Il viaggio con la Uil nella memoria. Per la memoria.

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Un silenzio assordante. Il vento mi accarezza la faccia mentre gli stivali toccano viali pieni di ghiaia. Non mi ero mai resa conto di come e di quanto il silenzio facesse rumore.

“Arbeit macht frei”, “il lavoro rende liberi”. Passo sotto la scritta tante volte vista sui libri di scuola. Vedo quei viali che papà mi ha mostrato su quel libro con tutte le foto di Auschwitz e Birkenau che aveva comprato la prima volta che era stato lì e che ci ha sempre mostrato come monito, perché era suo dovere insegnarci a ricordare.

Delle casette rosse disposte in fila, in maniera ordinata, sembrano equidistanti. Blocchi, così si chiamano. I viali con alberi, disposti uno dietro l’altro. E il filo spinato. Un pugno prende lo stomaco. “Provate a immaginare, è peggio.” – queste le parole che la guida continua a ripeterci. Perché possiamo leggere, guardare film, ascoltare testimonianze dei pochi sopravvissuti oggi ancora in vita, venire a visitare di persona questi luoghi. Possiamo fare tutto questo, ma non riusciremo mai a immaginare che una piccola parte della ferocia che si è consumata qui.

Entriamo nel primo blocco. Foto di bambini alle pareti. Volti che sembrano voler tornare alla vita, quella che ingiustamente gli è stata strappata. “Criminali per nascita”. Ripete la guida. Concetto troppo difficile da digerire. Frase che continua a distanza di giorni a ronzarmi nella testa. Foto di donne. Mamme, nonne e figlie. Di uomini, padri, nonni e figli.

Sarà brutto dirlo ma sento forte in me la sensazione di voler andare via. Di voler scappare. Sento forte il dolore e la sensazione di angoscia. Invece vado avanti.

La guida ci porta al secondo piano del blocco. Capelli, valigie, occhiali, protesi.  Circa 3.800 valigie, cinquemila spazzolini da denti, 110mila scarpe o pezzi di scarpe, pentole, creme. Osservo attonita quello che vedo intorno a me. Fisso una scarpa rossa con il tacco e dei brillantini davanti. Una scarpa che profuma di vita. La guida sembra leggermi nel pensiero e afferma “vedete scarpe di tutti i tipi, anche scarpe eleganti perché ora come allora la prima impressione è quella che conta. Nessuno dei proprietari di queste scarpe aveva la minima idea di quello che gli aspettasse”. Le pentole e gli oggetti per la cucina, grattugie e apribottiglie, me lo confermeranno subito dopo.

Prima però la guida ci fa fermare davanti a una vetrata piena di scarpette di bambini. Rimaniamo tutti la, fermi, sconvolti. Come se con il nostro silenzio volessimo riportare indietro quei bambini, restituirgli loro la vita e la loro innocenza. Gli occhi si riempiono di lacrime. Una domanda rompe il silenzio. “Quale è la differenza tra questi bambini e Alan Kurdi?”. Per chi non se lo ricordasse è quel bambino trovato morto sulla spiaggia dopo che lui e la sua famiglia salirono a bordo di un piccolo gommone, che si capovolse circa cinque minuti dopo aver lasciato Bodrum, in Turchia. Nessuna. Nessuna differenza. Ciò non ci fa stare meglio. Una domanda: ci rende forse responsabili?

L’angoscia e la consapevolezza salgono e con la sensazione di poter svenire da un momento all’altro continuo a camminare. In una teca vedo una crema “Nivea” e il cervello continua a fare pensieri, disordinati e disorganizzati. Penso alla stessa crema che ho nel cassetto di casa e tocco con mano la vicinanza dell’orrore che fino a quel momento avevo quantificato solo sui libri.

Continuiamo a camminare. Scatole di Zyklon B (polvere che diventava gas letale a contatto con l’aria calda), sembrano sassolini blu. Sono questi che vengono buttati nelle camere a gas. Camere che visiteremo alla fine, prima di uscire e prima di vedere i forni. Nessuna parola che posso scrivere descriverebbe a pieno quella sensazione provata in quelle anguste stanze.

Ho sentito divampare dentro di me una sensazione di impotenza, un dolore sordo che assomigliava agli occhi privati di anima dei prigionieri nelle foto appese lungo i corridoi dei blocchi di Auschwitz. Ovunque posassi lo sguardo li rivedevo.

Ho visto le prigioni, un metro quadro ciascuna.  “Provate a immaginare, è peggio.”, continuano queste parole a ronzarmi nella testa. Ma l’ancora peggio fa male solo a pensarlo.

Ho visto Auschwitz e Birkenau. Il secondo è un colpo al cuore. Distese immense di campi coperte da un’erba tagliata, che quasi stona con le immense capanne di legno. Ho visto le latrine e i letti, sempre se così possono essere chiamati.

 Sentivo il freddo nelle ossa e le sentivo quasi spezzarsi, al pensiero di come doveva essere arrivare lì e doversi privare di tutto; non solo dei propri averi ma anche e soprattutto dei propri cari. Aggrappati alla speranza che l’uomo non fosse poi un essere così abominevole, rimanendo solo con un pigiama, a piedi scalzi nella neve e con la morte che sai che ti sta aspettando, perché è a pochi passi da te che ti fissa negli occhi.

La visita ad Auschwitz e Birkenau non si può ridurre ad un racconto. È una lama che ferisce ogni volta che spirano nuovi venti di odio. Ti cambia dentro.

Valentina Bombardieri

Addetta Stampa Uilca

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